lunedì 4 ottobre 2004

04/10/2004 | Marcos: La velocità del sogno 1/2/3


CHIAPAS - Dalle montagne del sud-est messicano un nuovo comunicato del Subcomandante Marcos. Dopo la serie di otto interventi che ha interrotto il lungo silenzio dell'EZLN, gli zapatisti riprendono la parola. Visita il sito del FZLN. Leggi gli otto interventi precedenti - (da GlobalProject.info). "LA VELOCITA' DEL SOGNO" Prima parte - Stivali L'alba si attarda sulle montagne del Sudest messicano. Come se non avesse fretta, si crogiola deliziandosi in ogni angolo, come un’amante paziente ed affezionata. La nebbia le scivola dalla mano, con il suo lungo abito di nuvola e riesce a coprire la luce più intensa, le tende un cerchio, la circonda con la sua coltre di nuvola, la racchiude in un ampio cerchio. Dalla metà del cielo, la luna batte in ritirata. Una voluta di fumo si confonde con la foschia, lentamente, con la stessa lentezza con la quale la nuvola, sotto l'ampio volo del suo nagua, copre le capanne sparse. Tutti dormono. Tutti meno l'ombra. Tutti sognano. Soprattutto l'ombra. Tende appena la mano ed afferra una domanda. Qual'è la velocità del sogno? Non so. Forse è... No, non lo so... In realtà, qua, quello che si sa, si sa in maniera collettiva. Sappiamo, per esempio, che siamo in guerra. E non mi riferisco solo alla guerra propriamente zapatista che non cessa di soddisfare le ansie di sangue di alcuni mezzi di comunicazione e di alcuni intellettuali "di sinistra", tanto attenti gli uni alla quantità di morti, feriti e scomparsi, e gli altri a tradurre i morti in errori "per non aver fatto quello che io avevo detto loro". Non solo, parlo anche di questa che noi chiamiamo "IV Guerra Mondiale" lanciata dal neoliberismo e contro l'umanità. Quella in atto su tutti i fronti e in ogni luogo, comprese le montagne del Sudest messicano. La stessa che in Palestina e in Iraq, in Cecenia o nei Balcani, in Sudan o in Afghanistan, con eserciti più o meno regolari. Quella che, il fondamentismo dell'una e dell'altra fazione porta in tutti gli angoli del pianeta. Quella che, assumendo forme non militari, miete vittime in America Latina, nell'Europa Sociale, in Asia, in Africa, in Oceania, nel Lontano Oriente, con bombe finanziarie che mandano in pezzi interi stati nazionali ed organismi internazionali. Questa guerra che, secondo noi (insisto: tendenzialmente) vuole distruggere/spopolare territori, ricostruire/riordinare le geografie locali, regionali e nazionali e creare, a ferro e fuoco, una nuova cartografia mondiale. Questa che, sul suo percorso, continua a lasciare la sua firma: la morte. Forse la domanda "Qual'è la velocità del sogno?" dovrebbe essere accompagnata dalla domanda "Qual'è la velocità dell'incubo?" Ancora alcune settimane prima degli attentati terroristici dell'11 marzo 2004 in Spagna, un giornalista-analista politico messicano (di quelli a cui quando si dà un dolcetto si sciolgono in lodi ridicole) lodava la visione "dello Stato" di José María Aznar. L'analista diceva che, accompagnando gli Stati Uniti e la Gran Bretagna nella guerra contro l'Iraq, Aznar aveva ottenuto una promettente possibilità per l'espansione dell'economia spagnola e che l'unico costo che doveva pagare era il dissenso di una "piccola" parte della popolazione spagnola, "i radicali che non mancano mai, perfino in una società tanto fortunata come quella spagnola", ha detto "l'analista". Inoltre, ha aggiunto che gli spagnoli dovevano solo aspettare comodamente seduti che l'affare della ricostruzione dell'Iraq si mettesse in marcia ed allora avrebbero cominciato a ricevere denaro a carrettate. Insomma, un sogno. La realtà non ha tardato a passare per riscuotere il vero conto della "visione dello Stato" di Aznar. Quella mattina dell'11 marzo si compiva quella cosa che l'Iraq non sta in Iraq, voglio dire non solo in Iraq, bensì in tutto il mondo. Infine, la stazione di Atocha come sinonimo di incubo. Prima dell'incubo c'era il sogno, ma il sogno neoliberista. Molto prima degli attentati terroristici dell'11 settembre 2001 in territorio statunitense, la guerra contro l'Iraq si era messa in moto. Non c'è niente di meglio di una foto per andare a quell'inizio... Suolo piatto, rossiccio. Sembra essere duro. Forse argilla o qualcosa di simile. Uno stivale. Solo, senza il suo paio. Abbandonato. Senza un piede che lo calzi. Alcuni rottami sparsi. In realtà, lo stivale sembra una maceria in più. È tutto quello che c'è nell'immagine, cosicché è la didascalia della foto che chiarisce che si tratta dell'Iraq. La data? 2004, settembre. Non si riesce a distinguere se è lo stivale di qualcuno che è morto, che l'ha abbandonato nella fuga, o se si tratta semplicemente e normalmente di uno stivale buttato via. Non si sa neanche se è lo stivale di un soldato statunitense o britannico, o di un combattente della resistenza, di un civile iracheno o di un altro paese. Tuttavia, nonostante la mancanza di altre informazioni, l'immagine dà un'idea di quello che è l'Iraq del "dopoguerra" di Bush: violenza, morte, distruzione, desolazione, confusione, caos. Tutto un programma neoliberista. Se il falso argomento che la guerra contro l'Iraq era una guerra "contro il terrorismo" è venuto meno, le vere ragioni emergono ora, più di un anno dopo che, con l'aiuto dei carri armati da guerra statunitensi, è stata abbattuta la statua di Hussein ed un euforico Bush ne erigesse un'altra a se stesso dichiarando la fine della guerra. (Probabilmente, la resistenza irachena non ha sentito il messaggio di Bush: il numero di soldati statunitensi e britannici morti e feriti non ha fatto altro che aumentare da quando "è finita la guerra" ed ora si aggiungono le morti di civili provenienti da varie nazioni). L'ideologia neoconservatrice negli Stati Uniti ha un sogno: costruire la "disneyland" neoliberista. Al posto di un "villaggio modello", come dettato dai manuali di controinsurrezione degli anni '60, si è tentato di costruire una "nazione modello". Si è scelto allora il territorio dell'antica Babilonia. Il sogno della costruzione di un "esempio" di come deve essere il mondo (sempre secondo i neoliberisti) si è nutrito della "(...) più apprezzata credenza tra gli architetti ideologici della guerra (contro l'Iraq): che l'avidità è buona. Non solo buona per loro ed i loro amici, ma buona per l'umanità e certamente buona per gli iracheni. L'avidità crea guadagni, i quali creano crescita, la quale crea lavoro, prodotti e servizi e qualunque altra cosa di cui qualcuno possa aver necessità o desiderio. "Il ruolo di un buon governo, quindi, è quello di creare le condizioni ottimali affinché le corporazioni portino avanti la loro avidità senza fondo, in modo che, quando tocca loro, si possano soddisfare le necessità della società. "Il problema è che i governi, anche i governi neoconservatori, hanno raramente l'opportunità di provare quanto sia corretta la loro sacra teoria: nonostante i loro enormi sforzi ideologici, perfino i repubblicani di George Bush, nei loro stessi vertici, sono eternamente sabotati da impiccioni democratici, sindacati ostinati ed allarmati ambientalisti. L'Iraq doveva cambiare tutto questo. In un luogo della Terra, finalmente la teoria sarebbe stata messa in pratica nella sua forma più perfetta e pura. "Un paese di 25 milioni di abitanti non sarebbe stato ricostruito come era prima della guerra: sarebbe stato cancellato, sarebbe scomparso. Al suo posto sarebbe sorta un'abbagliante sala d'esposizione per le politiche del laissez-faire, un'utopia come il mondo non aveva mai visto" ("Baghdad anno zero. La rapina dell'Iraq dietro un'utopia neoconservatrice", Naomí Klein, Harper's Magazine, settembre 2004). Invece, l'Iraq è un esempio sì, ma di ciò che aspetta il mondo intero se i neoliberisti vincono la grande guerra, la IV Guerra Mondiale: disoccupazione a quasi il 70%, l'industria ed il commercio paralizzati, aumento esorbitante del debito estero, muri anti-attentati da tutte le parti, crescita esponenziale del fondamentalismo, guerra civile... ed esportazione del terrorismo in tutto il pianeta. Non voglio saturarvi con qualcosa che quotidianamente trovate nei notiziari: offensive militari della coalizione (attenzione: in una guerra che "è già finita"), mobilitazione della resistenza irachena, attentati, attacchi ad obiettivi militari e civili, sequestri, esecuzioni, nuove offensive della coalizione, nuova mobilitazione della resistenza irachena, eccetera. Sono sicuro che trovate esaurienti informazioni sulla stampa di tutto il mondo. In lingua spagnola, senza dubbio la miglior fonte è il quotidiano messicano La Jornada che conta tra i suoi collaboratori alcuni degli analisti più seri e documentati sulla questione dell'Iraq. La cosa sicura è che questo video l'abbiamo già visto prima da altre parti... e continuiamo a vederlo: Cecenia, i Balcani, Palestina, Sudan, sono solo esempi di questa guerra che distrugge nazioni per cercare di "riconvertirle" in "paradisi"... mentre finiscono per essere trasformate in inferni. Uno stivale abbandonato sulle terre dell'Iraq "liberato" riassume il nuovo ordine mondiale: la distruzione di nazioni, la desertificazione di qualsiasi segno di umanità, la ricostruzione come riordinamento caotico delle rovine di una civiltà. Tuttavia, ci sono altri stivali, anche se pochi... Stivali rotti. Sì, gli stivali dell'insurgenta Erika sono rotti. Nella punta destra davanti, la suola è staccata e conferisce allo stivale un aspetto di bocca insoddisfatta. Le dita non sono ancora visibili, cosicché la Erika non sembra essersi accorta che i suoi stivali, precisamente il destro, sono rotti. Fin dai primi giorni nella montagna, il guardare verso il basso diventò per me un'abitudine. La calzatura normalmente è uno dei sogni/incubi del guerrigliero (altri? lo zucchero, avere i piedi asciutti ed altre ossessioni piuttosto umide), cosicché egli le dedica buona parte delle sue attenzioni. Forse per questo motivo si acquisisce quella mania di guardare sempre i piedi degli altri. La insurgenta Erika è venuta ad avvisarmi che avevano appena pubblicato il racconto L'arancia magica (ultima produzione di Radio Insurgente che racconta di... bene, è meglio se l’ascoltate direttamente). Io le rispondo che ha lo stivale rotto. Lei abbassa lo sguardo e mi dice "anche tu". Saluta militarmente e va via. La Erika si cambia perché tra poco giocheranno a calcio due squadre di insurgentas, una si chiama "8 Marzo" e l'altra "Le Principesse della Selva". Non so molto di calcio ma, a mio parere, le "principesse" giocano con un stile piuttosto lontano dalle buone abitudini della corte reale e quelle del "8 Marzo" giocano come se si trattasse della sollevazione del primo di gennaio. Cioè, buona parte di loro finisce nell'infermeria. Inoltre, ogni volta che giocano, le addette alla sanità tengono la barella a lato del campo. "Per non fare il giro", dicono. Poi hanno pareggiato. Cioè, le insurgentas hanno pareggiato giocando a calcio. Sono andate ai rigori perché continuavano ad essere in pareggio. La insurgenta Erika viene a dirmi questo. La Erika è la consulente sentimentale delle insurgentas, ma questa volta non viene a raccontarmi che ad una compagna "duole il cuore" per il mal d'amore, ma che la partita è finita e che lei va a parlare con il villaggio, più in concreto, con le donne dei villaggi. Si presenta come civile, cioè con abiti civili. Questo è quello che dice. Perché io vedo che porta degli stivali fabbricati nei laboratori zapatisti e che hanno sul lato il marchio "EZLN". "Mmh, se porti quegli stivali allora tanto vale che indossi l'uniforme completa", lei dico cercando di essere sarcastico. La Erika se ne va. Dopo un momento ritorna con l'uniforme. "Dove vai?", gli domando. "Al villaggio", risponde. "Ma, come ti viene in mente di andarci in uniforme?" le domando/rimprovero. "Perché così mi hai detto.", mi dice di averle detto. Capisco che è inutile tentare di spiegare le qualità della sottile ironia, quindi le ordino: "No, mettiti in abiti civili e togliti quegli stivali". Se ne va. Dopo un attimo ritorna con abiti civili... e scalza. Ho sospirato, che cos'altro potevo fare? Non credete alla Erika, il mio stivale non è rotto. È scucito, che non è la stessa cosa. Si staccato un occhiello ed è per questo che l'incrocio delle stringhe sembra il sistema politico nel neoliberismo, cioè, un groviglio in cui non si sa dove va la destra e dove va la sinistra. Sto spiegando questo a Rolando quando arriva... La Toñita Prima-Generazione, cioè la Toñita I (quella del bacio negato perché "pizzica tanto", quella della tazzina rotta, quella della pannocchia di mais promosso a bambola), ha già 15 anni. "Cioè ha compiuto i 14 ma è entrata nei 15 cioè, va per i 16", mi dice suo papà, un responsabile zapatista dei più vecchi tra noi. Io mi siedo, senza confessarlo, che non ho mai capito la matematica che regola i calendari nelle comunità ribelli zapatiste (dopo aver tentato inutilmente di spiegarmelo, il Monarca si rassegna ed aggiunge solo: "Credo che sia perché così è il nostro modo, che effettivamente è molto diverso"). Il papà della Toñita I (cioè della Toñita Prima-Generazione) è venuto perché io la vedessi, perché sono passati più di 10 anni da quando l'ho vista l'ultima volta. Dieci anni non passano invano, cosicché la Toñita I non solo non mi nega un bacio, ma senza che io riesca a dire niente mi abbraccia e mi stampa un bacio sulla guancia ovattata dal passamontagna e diventa tutta rossa (la Toñita I, non il passamontagna). Io non dico niente ma penso "Mmh, si mette male... e non mi sono tolto il passamontagna neanche per lavarmi". Intanto la Toñita I tira fuori dal suo zaino degli stivali e se li mette. Io sto per domandarle perché si mette gli stivali dopo avere camminato scalza per sei ore dal suo villaggio a qui, invece di metterseli per il cammino e toglierseli all'arrivo, ma la Toñita I mi precede e mi domanda se può andare "là" - e indica dove c'è un gruppo di insurgentas. La Toñita I sa quello che si può ottenere con un bacio, anche se sul passamontagna, così non aspetta la risposta e corre via. Mentre la Toñita I corre a vedere se la lasciano giocare nella partita di calcio delle insurgentas, suo padre mi racconta del suo villaggio (che io ho sempre chiamato, stando attento che nessuno mi sentisse "Cime Tempestose"). Sono riuscito a vedere la cicatrice di una ferita sul braccio sinistro della Toñita I, così gli domando di quella. Il papà della Toñita I mi racconta che un giovane del villaggio voleva portarsela alla latrina. (Nota: chiarisco all'ignaro lettore di queste righe che la latrina in alcuni villaggi non adempie solo alle sue odorose funzioni igieniche, ma suole essere anche luogo di incontro di coppie. Non sono pochi i matrimoni in comunità che hanno come origine il per nulla romantico luogo della latrina. Fine della Nota). Il caso vuole che la Toñita I non ha voluto andare alla latrina. "Cioè non le piaceva", mi conferma suo papà. Allora il ragazzo ha cercato di obbligarla e "dato che non le andava" - ribadisce suo papà - hanno lottato. La Toñita I è riuscita a fuggire ma, come succede, la cosa si è risaputa ed è giunta fino all'assemblea del villaggio. Il papà della Toñita I mi racconta che la volevano mettere in prigione. Io lo interrompo: "Perché, se è lei che è stata aggredita ed ha persino il braccio ferito?". "Ah, Sup, avessi visto com'era ridotto il giovanotto... - mi dice il papà - praticamente è rimasto menomato, il fatto è che la Toñita è molto… selvaggia". La Toñita I, oltre ad un viso grazioso, ha un fisico forte, cioè, come spiegarvi? Beh, per farvi capire vi dirò solo che Rolando vuole che giochi al centro della difesa nel torneo zapatista di calcio. "Ma la squadra delle insurgentas è già al completo", dico a Rolando. Lui aggiunge solo: "Non è per la squadra delle insurgentas, io la voglio per la squadra degli uomini". In quel momento passano le addette alla sanità con due insurgentas piuttosto peste. La Toñita I sta piangendo perché per colpa sua hanno assegnato due rigori alla squadra. A questo punto comprendo Rolando e mi rivolgo al papà e gli domando: "La Toñita non ha detto se vuole diventare insurgenta?". La Toñita I si è tolta gli stivali e li ha messi nel suo zaino. Se ne va con suo papà, camminando scalza. Non è molto che se n'è andata quando, accompagnata da sua mamma... appare la Toñita Seconda-Generazione, cioè la Toñita II. La mamma della Toñita II, o Seconda Generazione, si chiama Elena. È tenente insurgenta di sanità ed ha il merito di aver salvato la vita di diversi insurgentes e miliziani che, nel gennaio 1994, erano stati feriti nei combattimenti di Ocosingo. In un più che modesto ospedale da campo, Elena ha operato ferite d'arma da fuoco ed estratto pezzi di mitraglia dal corpo degli zapatisti. "Ci è morto un compa", mi disse allora. Non mi raccontò degli oltre 30 combattenti che oggi vivono e lottano in queste terre, quelli che aveva salvato. La Toñita II ha tre anni. "Cioè, ne ha compiuti due e va per i quattro?", mi affretto a dire prima della spiegazione di Elena. Lei ride. Voglio dire, Elena ride. Perché la Toñita II sta lanciando delle urla degne di miglior causa. È che, facendo uno sguardo civettuolo (il numero 7 del mio esclusivo "catalogo" di sguardi seduttori) le ho chiesto un bacio. La Toñita II non ha neppure detto "pizzica tanto" (cioè, non è una versione migliorata), semplicemente si è messa a piangere con tale veemenza che ha già al suo fianco un gruppo di insurgentas che le offrono caramelle, un sacchetto con un muso di coniglio (anche se a me sembra di tlacuache [mammifero marsupiale, n.d.t.] - il sacchetto, si capisce) e stanno persino cantandole la canzoncina del capretto, una canzonetta che gode di un inusitato successo tra i bambini e le bambine zapatiste. "Non ti vuole", mi dice la maggiore Irma facendo piovere sul bagnato. Io rispondo: "Bah, è pazza di me" e fingo di non avere il cuore a pezzi. Uscendo dallo spaccio, Rolando mi dà uno di quegli aghi chiamati "da cappotto" ed un rotolo di nylon. Nella capanna del comando generale dell'EZLN rifletto... Se non so qual’è la velocità del sogno, non so nemmeno se ricucirmi gli stivali o il cuore. (continua...) Dalle montagne del Sudest messicano Subcomandante insurgente Marcos Messico, settembre 2004, 20 y 10 (traduzione del Comitato Chiapas "Maribel" di Bergamo e del Comitato Chiapas di Torino) ______________________________________________________________________________ Seconda parte - Scarpe, scarpe da tennis, ciabatte, sandali, pantofole (in risposta ad una lettera inviata a fine agosto al subcomandante dal direttore di Carta, Pierluigi Sullo - n.d.r.) Settembre è il nono mese dell’anno e la Luna si presenta con una pancia come se fosse di nove mesi. E perfino arrossisce un po’ quando si lascia cadere ad occidente. La pioggia e le nuvole si sono affacciate ma, colte dalla pigrizia sono rimaste dietro la montagna, quella che si alza ad oriente. In basso, nel registratore, Tania Libertad canta quella che dice "non lo impediranno (...), nonostante l’autunno cresceremo". Confusa nelle ombre, l’ombra scrive una lettera. Dopo "Esercito Zapatista eccetera" e la data, settembre 2004, si legge ... A: Pierluigi Sullo. Direzione del settimanale Carta. Italia, continente europeo, pianeta Terra. Pedro Luis, fratello: Ricevi un abbraccio dalle montagne del sudest messicano. Suppongo che ti sembrerà strano il "Pedro Luis", ma è che sono stato contagiato dal "modo" dei compagni di "zapatizzare" i nomi, quindi scrivo "Pedro Luis" per "Pierluigi". Bene, ho ricevuto la lettera che hai scritto e che non hai mandato. Cioè, ho ricevuto la lettera su Carta ["...recibí la carta en Carta" - in spagnolo diventa un gioco di parole, N.d.T.]. Mi spiego: mi hanno mandato una fotocopia della missiva apparsa su Carta (26 agosto-1 settembre 2004, anno VI, numero 31). Siccome il mio italiano non riesce nemmeno a somigliare "all’itagnolo" dei "turbineros e turbineras" (che anni fa hanno lavorato duramente per dare luce a La Realidad), ho dovuto chiedere che qualcuno mi facesse il favore di tradurla.. E lo hanno fatto ma in una neo lingua che qua chiamiamo "itazapagnolo" che, se la memoria non m’inganna, inaugurò la Vanessa quando, sempre disobbidiente, ha vissuto anni nella realtà zapatista. Stando così le cose, ho dovuto ricorrere ad alcuni dizionari che ci avevano inviato tempo fa (non mi ricordo, credo fosse Mantovani o Alfio). Dunque, prima si sono dovuti cercare e trovare i dizionari che, com’era d’aspettarsi, livellano una gamba di un tavoli di uno dei comandi generali dell’unico ezetaelene. Cioè, c’ho messo tempo ad intuire, più che a sapere, quello che diceva la lettera di Carta. Forse mi sono sbagliato, ma sono riuscito a capire che l’obiettivo della tua missiva è salutarci... ed esporre problemi. Il genere epistolare è, secondo la mia umile opinione, uno dei mezzi migliori per il dibattito (un altro, ancora meglio, è la pratica politica). Non lo dici apertamente, ma chiunque potrà rendersi conto che, in fondo, la tua lettera espone, in questo caso dall’Italia ribelle, lo stesso problema della velocità del sogno. Ed anche se non lo dici in maniera esplicita, dall’Italia che lotta, cioè che sogna, e rispondi anche: "non lo so". Bene, ai problemi che esponi io potrei risponderti con l’assioma dell’ineffabile e grande (di ego) Don Durito de La Lacandona: "Non c’è problema sufficientemente grande che non si possa superare." Benché la ritenga una ricetta eccellente (a me ha dato buoni risultati in più di una volta), credo sinceramente che quello che esponi non cerchi una soluzione, bensì una discussione. Il "che fare in Italia?" è, in effetti, un problema. Ed a mio modo di vedere, fa parte del problema "che fare nel mondo? ". Bene, la risposta di noi zapatisti è... "non lo sappiamo." So che non ti aspettavi qualcosa di diverso da parte nostra, conoscendoci bene come ci conosci. Tuttavia, dalla nostra terra e dalla nostra lotta possiamo dire quanto segue: Primo. Nel Messico di oggi, tutti i politici, anche quelli che sono in testa nelle inchieste, nei titoli dei notiziari o nel numero di manifestanti, indipendentemente dal colore della retorica che innalzano o dal simbolo della loro organizzazione partitica, hanno l’assoluta sfiducia di noi zapatisti, il nostro scetticismo ed incredulità. Basati unicamente sulle loro parole, promesse, intenzioni, cifre, statistiche, studi di opinione, non otterranno assolutamente niente buono da noi. Niente, neppure il beneficio del dubbio. Come il capo dell’Esercito Liberatore del Sud, generale Emiliano Zapata, di fronte a Francisco I. Madero, la nostra ostilità verso i politici del centro sarà regola invariabile: e come Emiliano Zapata di fronte alla poltrona presidenziale, continueremo a voltare le spalle al Palazzo Nazionale ed a chi aspira a sedersi su quella poltrona. E la stessa cosa vale per l’autodenominato "Congresso dell’Unione" ed il circense Potere Giudiziale della Federazione. Secondo. Nel caso specifico dei partiti politici che si autoproclamano di sinistra riconosciuti in Messico (ma che, non bisogna dimenticarlo, non sono le uniche organizzazioni politiche di sinistra che esistono nel nostro paese), non possiamo trattenere un sorriso amaro quando i loro funzionari di partito, governanti, deputati, senatori e portaborse stipendiati, rinfacciano a Vicente Fox l’inadempimento della sua promessa in campagna elettorale di risolvere il "problema" del Chiapas in 15 minuti. Noi non dimentichiamo che quelli che oggi criticano, sono gli stessi che hanno votato a favore di una legge che, oltre a non adempiere un atto di elementare giustizia, contravveniva fondamentalmente al reclamo dei popoli indios del Messico e di milioni di persone nel nostro paese ed in altre parti del pianeta. Sono gli stessi che incoraggiano gruppi paramilitari per osteggiare ed aggredire le comunità zapatiste. Sono gli stessi che si impegnano a compiacere una destra, (la si chiami alta gerarchia ecclesiale o imprenditoriale) che, bisogna dirlo, non sente nessuna attrazione per loro. Sono gli stessi che, sotto il braccio, portano i piani economici e polizieschi che sono stati studiati nei consigli di amministrazione dell’avidità internazionale. Con tutto questo, non possiamo avallare, col nostro silenzio, le porcherie giuridiche con le quali si vuole impedire che chi governa ora Città del Messico, nel 2006 si presenti alle elezioni per la Presidenza del paese. Ci sembra un’azione illegittima, mal congegnata per fallacie legali che attenta contro il diritto dei messicani di decidere se al governo ci va uno o un altro o nessuno. La concretizzazione di un imbroglio di tale natura significherebbe, né più né meno, l’invalidazione dell’articolo 39 della Costituzione messicana, che sancisce il diritto del popolo di decidere la sua forma di governo. Sarebbe, per dirla chiara, un colpo di Stato "soft". Dicendo questo non ci mettiamo dalla parte di una persona né di un progetto di governo. Tanto meno si traduce in appoggio ad un partito che non solo non è di sinistra e non è progressista, ma non è neppure repubblicano. Semplicemente ci mettiamo dalla parte della storia di lotta del nostro popolo. Terzo. Le elezioni passano, i governi passano. La resistenza resta quello che è, un’alternativa in più per l’umanità e contro il neoliberismo. Niente di più, ma niente di meno. Tuttavia, coerenti con l’avversione che professiamo verso i dogmi, ammetteremo sempre che possiamo sbagliarci e che, in effetti, potrebbe essere che, come predicano adesso gli impiegatucci di moda, sia necessario, urgente, imprescindibile, arrendersi incondizionatamente nelle braccia di chi, dall’alto, promette cambiamenti che si possono ottenere solo dal basso. Possiamo sbagliarci. Quando ce ne renderemo conto perché la dura realtà si interporrà sulla nostra strada, saremo i primi a riconoscere questo equivoco davanti a tutti, a favore e contrari. Sarà così perché, tra le altre cose, noi crediamo che l’onestà di fronte allo specchio sia necessaria per tutti quelli che, a parole o nei fatti, si impegnano nella costruzione di un mondo nuovo. In ogni caso, noi mettiamo la vita nelle nostre certezze e nei nostri equivoci. Credo sinceramente che, dall’alba del primo gennaio del 1994, ci siamo guadagnati il diritto di decidere noi stessi il nostro cammino, la sua cadenza, la sua velocità, la sua compagnia continua o sporadica, le sue tappe e, soprattutto, il suo destino. Non cederemo questo diritto. Siamo disposti a morire per difenderlo. Quarto. Continueremo a fare quello che crediamo sia il nostro dovere fare. E questo indipendentemente dal "rating" ottenuto dalle nostre azioni, dal posto che occupiamo nei notiziari, o dalle minacce e profezie che, da uno e dall’altro lato dello spettro politico, ritengono opportuno lanciarci ogni volta che non facciamo quello che loro vogliono che facciamo o che non diciamo quello che loro vogliono che diciamo (cosa che succede sempre). Non ci uniremo allo schiamazzo isterico della classe politica e dei suoi fans nelle colonne di "analisi politica". Quelli che vogliono imporre, sempre dall’alto, un’agenda che non ha niente a che vedere con quello che succede in basso nel nostro paese, precisamente, lo smantellamento implacabile dei fondamenti della sovranità nazionale. Non manipoleremo nemmeno il calendario affinché il 2006 anticipi la sua incertezza, la sua fiera delle vanità, il suo cinico spreco di risorse e di stupidità. Tanto meno sarà la nostra linea di azione quella di chi vorrebbe che noi mettessimo i nomi di carcerati, desaparecidos e morti, mentre loro mettono i nomi nelle liste plurinominali. Quinto. Questo non vuol dire che non ascoltiamo. Lo facciamo e continueremo a farlo. Da tutte le parti del mondo ci arrivano parole di incoraggiamento e di critica, consigli ed avvertimenti, adesioni e rifiuti. Ascoltiamo tutto e lo conserviamo nel cuore collettivo che siamo. Chiunque in qualsiasi parte del mondo può stare sicuro che gli zapatisti l’ascolteranno. Ma una cosa è ascoltare ed un’altra è obbedire. Le "polemiche" se gli zapatisti siano rivoluzionari o riformisti, lights o heavys, ingenui o maliziosi, buoni o cattivi, non godono della nostra attenzione e, come le zanzare nelle lunghe notti nelle montagne del sudest messicano, non è quello che ci tiene svegli. Nelle terre zapatiste non comandano i transnazionali, né il FMI, né la Banca Mondiale, né l’imperialismo, né l’impero, né i governi di uno o dell’altro segno. Qua le decisioni fondamentali le prendono le comunità. Non so come si chiama questo. Noi lo chiamiamo "zapatismo." Ma il nostro non è un territorio liberato, né un comune utopica. Neanche il laboratorio sperimentale di uno sproposito o il paradiso della sinistra orfana. Questo è un territorio ribelle, in resistenza, invaso da decine di migliaia di soldati federali, poliziotti, servizi di intelligece, spie di diverse nazioni "sviluppate", funzionari con funzioni di controinsurrezione ed opportunisti di ogni tipo. Un territorio composto da decine di migliaia di indigeni messicani vessati, perseguitati, colpiti perché si rifiutano di smettere di essere indigeni, messicani ed esseri umani, cioè, cittadini del mondo. Sesto. Del resto del pianeta, la nostra ignoranza è enciclopedica (in realtà occuperebbe più volumi che le opere complete della parola esterna ed interna dei neozapatisti, la quale, sia detto per inciso, è abbondante) e poco o niente possiamo dire su organizzazioni politiche di sinistra che lottano o dicono di lottare sotto altri cieli. Lì, come dovunque, preferiamo guardare verso il basso, verso movimenti e tentativi di resistenza e di costruzione di alternative. Ci voltiamo a guardare verso l’alto solo se una mano dal basso ci indica questa direzione. Settimo. Con le nostre goffaggini o successi, definizioni o vaghezze, stiamo cercando, solo cercando, ma mettendoci la vita, di costruire un’alternativa. Piena di imperfezioni e sempre incompleta, ma la nostra alternativa. Se siamo arrivati fino a dove siamo arrivati non è stato, tuttavia, per la nostra sola capacità o decisione, bensì per l’appoggio di uomini e donne di tutto il mondo che hanno compreso che in queste terre non c’è un mucchio di bisognosi, avidi di elemosine o di pietà, ma esseri umani che, come loro, aspirano e lavorano per un mondo migliore, un mondo dove stiano tutti i mondi. Credo che uno sforzo così meriti la simpatia e l’appoggio di ogni persona onesta e nobile nel mondo. E credo che, il più delle volte, questa simpatia ed appoggio trova la sua versione più fortunata nella lotta che intraprendono o conducono nelle loro rispettive realtà, qualunque sia la loro cultura, la loro lingua, la loro bandiera, il loro tipo di calzatura, scarpe, scarpe da tennis, ciabatte, sandali o pantofole. In questo senso, nella nostra geografia, sono più vicine alle comunità zapatiste realtà che le mappe indicano distanti. Così, è più vicino a noi l’Europa del basso: l’Italia Disobbedientee dell’autogestione; la Grecia che comunica con segnali di fumo; la Francia delle ciabatte e dei senza documenti e senza tetto, ma con dignità; la Spagna insorta e solidale; l’Euzkal Herria che resiste e non si arrende; la Germania ribelle; la Svizzera impegnata; la Danimarca compagna; la Svezia perseverante; la Norvegia coerente; la Patria negata ai curdi; l’Europa marginale in cui soffrono gli immigrati; tutta l’Europa dei giovani che si rifiutano di comprare le azioni nelle borse del cinismo... e le donne messicane indigene mazahuas. Ribellioni e resistenze che sentiamo più vicine delle interminabili distanze che ci separano dalla superba città di San Cristóbal de Las Casas e dai partiti politici che parlano con la sinistra ed agiscono con la destra. Bene, per il momento è tutto, compagno Pedro Luis. Credimi, non mi dispiace se, per quello che ti scrivo corro il rischio "di essere giudicato come uno che delira, che non vede la realtà". Sia come sia, il problema fondamentale resta in sospeso, cioè, quello di chiarire qual’è la velocità del sogno. In attesa della soluzione, ricevi un abbraccio e la prossima volta che scrivi, insieme alla lettera su Carta, manda una traduzione, anche in "itagnolo". Salute, e che lo schiamazzo che viene dall’alto non impedisca di ascoltare il mormorio proveniente dal basso. (Continua...) Dalle montagne del sudest messicano. Subcomandante insurgente Marcos. Messico, settembre 2004. 20 y 10. (2 ottobre 2004 www.jornada.unam.mx - Traduzione Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo) _______________________________________________________________________________ Terza parte - Piedi nudi Il club delle mutue caricature Qual è la velocità del sogno? Non lo so. "Non lo so", queste tre parole dovrebbero essere più presenti nel repertorio di tutti, così obbligati come a volte ci sentiamo ad opinare su tutto ed a sostituire opinioni con dogmi e ricette pronte ("verità", le chiamano). Nel Club delle mutue caricature, ovvero, nella selezionata intellighenzia che, sui e dai mezzi di comunicazione di massa di destra (ed alcuni "di sinistra") si tiene lontana ("obiettiva", dicono) dalla realtà, è da tempo che la critica ed il dibattito sono stati soppiantati dallo scandalo mediatico, dalla "neutralità" (che, alla fine, è più fondamentalista di Bush-Bin Laden) e da profezie che non importa se non sono supportate da argomenti e nemmeno se si concretizzano ("dopo tutto, a chi importa la realtà?"). Cortigiani versatili alla periferia del potere, questi intellettuali parlano di tutto, sono esperti di tutto. Nella loro filosofia istantanea e solubile ("andiamo in onda - consegno la mia collaborazione in pochi minuti, non c'è tempo di pensare a quello che si dirà-scriverà"), questi neofilosofi della postmodernità, seguendo le mode che si rinnovano di tanto in tanto, imitano le pose ed il metodo dei "grandi" pensatori, cioè, astraggono e generalizzano. Ovvero, suppongono e creano un modello e poi lo applicano. Il resto? all'immondizia (cioè, fuori dalla programmazione o dall'indice dell'articolo). Inoltre, l’intellettuale ed il comunicatore che fanno gli analisti politici di destra (e non pochi di "sinistra") si erigono a giudici che dettano sentenze ed aspettano, comodamente seduti all’università o in una sala stampa, che la realtà sia il boia che esegua la sentenza. Se il "successo" della filosofia politica reazionaria, cioè, dell'analista di destra, sta nella sua capacità di "giustificare" un'azione, quello di coloro che predicano dal pulpito dei mezzi di comunicazione sta nel trivializzare l'illogicità. Proponendo emozioni riflesse e irragionevoli, i comunicatori affrontano la guerra, la povertà, le catastrofi naturali, le arbitrarietà dei governi, i crimini e le sempre più frequenti scintille di scontento popolare. Dopo tutto, i sentimenti possono essere fugaci quanto le questioni "più importanti" dei notiziari. Così, si disperano per la mancanza di video. Invece ci sono, ma ciò che succede è che molti di questi suscitano riflessioni e, diciamolo chiaro, la riflessione profonda non è la fonte della comunicazione di massa. La velocità dell'incubo È con la riflessione teorica (che non è sinonimo di masturbazione mentale), col dibattito (che non è il ping-pong degli insulti), con lo scambio di esperienze (che non è lo scambio di ricette pronte) che, se non si può sapere qual'è la velocità del sogno, si può invece calcolare la velocità dell'incubo. Dalla nostra stessa esperienza e da quello che vediamo sul globalizzato piano di sopra, abbiamo imparato che è la stessa velocità che ci vuole per abbassare le mani, arrendersi, rassegnarsi, assumere la comoda e stupida posizione di spettatore, abbandonare ideali sugli altari di un pragmatismo alla fine dei conti sterile e deformante. Se il potere mondiale rende un omaggio morboso all'11 settembre ed all'11 marzo, è per usarli come pretesto dell'incubo che globalizza e ci vuole "vendere" il sogno che il suo potere militare e poliziesco eviterà che si ripetano altri "undici" nel calendario... seminando il suo terrore in altre date ed in tutto il mondo. Ma, di fronte agli "11" del terrore di una e dell'altra parte, c'è, per esempio, un "15", quello del febbraio del 2003. In quella data più di 30 milioni di persone di oltre 100 nazioni del mondo si sono mobilitate contro la guerra. Molti diranno che è stato inutile, che la guerra comunque è scoppiata. Ma si dimentica che il raccolto della semina del basso non è mai immediato. E non sempre le mobilitazioni finiscono quando si chiudono i notiziari. Il più delle volte diventano apprendistato ed organizzazione. Il potere può ben vivere con dimostrazioni massicce di ripudio che finiscono quando si cambia canale, ma non può starsene tranquillo quando questo ripudio si organizza e tanto meno quando cresce. Perché, in basso, imparare è crescere Le menzogne, per quanto rating ostentino, normalmente provocano indigestione e vomito. Le verità, certamente, provocano mal di stomaco, ma questo normalmente si allevia facendo qualcosa. Perché, sebbene le bugie siano irrimediabili, le verità hanno rimedio. Di fronte all'incubo, non basta svegliarsi. La veglia può fiorire nel sogno. L'impreciso sogno zapatista Ma, quale è la velocità del sogno? Non lo so. Nel nostro sogno, il mondo è un altro, però non perché qualche deus ex macchina ce lo regala, ma perché lottiamo, nella permanente veglia della nostra veglia, perché in quel mondo sorga l'alba. Noi zapatisti, sappiamo con chiarezza che non avremo, né noi né nessuno, la democrazia, la libertà e la giustizia di cui abbiamo bisogno e che meritiamo, fino a che, con tutti, la conquisteremo per tutti. Con gli operai, con i contadini, con gli impiegati, con le donne, con i giovani. Con quelli che fanno funzionare le macchine che fanno produrre i campi, che danno vita alle strade ed ai sentieri. Con quelli che, con il loro lavoro, ogni giorno precedono il sole. Con quelli che da sempre producono la ricchezza ed oggi consumano solo la povertà. La nostra lotta, cioè, il nostro sogno, non finisce. Tuttavia, nella veglia di tutti i giorni ci sforziamo di non lasciare in eredità a coloro che seguiranno, uno spazio di rancore e di affanno distruttivo. In ogni momento ribadiamo la nostra decisione di non imporre a nessuno (nemmeno a noi stessi) - anche dall'impunità dell'assenza definitiva (toccati dalla bacchetta magica della morte, quella che trasforma in perfezioni ciò che non è altro che un mucchio di contraddizioni) - una serie di cinismi mascherati da "ragioni politiche" o da fondamentalismi camuffati da "neofilosofia" universale ed eterna. Lo zapatismo non è una guida per l'azione Ci impegniamo ogni minuto di ogni ora di ogni giorno, a non predicare né promuovere il culto del "tanto tutto è uguale" che è solo un alibi che giustifica che, nel "tutto", si comprende il tradimento dei principi. La ragione che ci muove è etica. In questa ragione, il fine sta nei mezzi. Vogliamo, e per questo lottiamo quotidianamente contro tutto (compreso contro noi stessi) per posare un'altra pietra ancora nella nostra casa, quella che vogliamo tutta porte e finestre, da cui si possa entrare, si possa uscire, guardare ed essere guardati, senza altro limite che la voglia di fare una o l'altra cosa. Una casa dove non sia doloroso essere donna, o bambino, o anziano, o indigeno, o giovane, o gay, o lesbica, o transessuale, o lavoratore del campo o della città. Per finire, un posto dove non ci si debba vergognare d’appartenere all'umanità. Vogliamo continuare a lottare per quello che siamo, come zapatisti. Così il mondo nuovo non nascerà solo dal nostro passo, però anche da quello. Vogliamo, alla fine, sparire. Per questo, e non per altro, siamo apparsi. Per questo motivo nel nostro sogno, noi non ci siamo. Piedi nudi Quale è la velocità del sogno? Non lo so. Ma ora, in quest'alba di settembre, senza altra compagnia che un vento gelato, con la pioggia che tamburella impaziente sul tetto della capanna, e sommando alla nuvola che porto quella che fuori riposa, realizzo che, forse è la stessa velocità con la quale, nel mio sogno, l'ombra che sono svanisce nell'altra e gentile ombra fra le gambe di Lei, mentre con le mie labbra scrivo promesse impossibili sulle piante dei suoi piedi nudi... Dalle montagne del Sudest Messicano Subcomandante Insurgente Marcos Messico, Settembre 2004. 20 y 10 P.S. - Qui finisce il programma "scientifico" del Sistema Zapatista di Televisione Intergalattica. Dopo un taglio anti-commerciale, continueremo con la nostra programmazione. Non cambiate. (Sullo schermo, cioè sul cartoncino, appare: "Sandali Yepa-Yepa, l'unico sandalo g-l-o-b-a-l-i-z-z-a-t-o, lancia sul mercato il suo nuovo modello " Pozol Agrio" - produzione limitata ad un prezzo da sogno! Non si accettano carte di credito né contanti. Autorizzazione della Giunta del Buon Governo numero 69. Con restrizioni"). (traduzione del Comitato Chiapas "Maribel" - Bergamo)