giovedì 10 luglio 2008

MALATI DI NIENTE


Rassegna Malati di Niente 2008
8° Edizione

"Valorizziamo le diversità per combattere lo stigma"

Promossa dalla Comunità Alloggio Soteria e dalla Rete del Sollievo di Jesi

In collaborazione con: Dipartimento Salute Mentale Asur zona territoriale 5, Cooperativa sociale COOSS Marche, Associazione Culturale “Asiamente”, Centro Sociale TNT, Teatro Pirata e Associazione dei Familiari Atena, Comune di Jesi (Assessorato ai Servizi Sociali), Regione Marche, Provincia di Ancona, Ambito Territoriale IX.


Informazioni: Comunità Alloggio Soteria Via Tabano, 51 - Jesi

tel 0731/290003 - fax 0731/290218 - email c.soteria[at]libero.it

Il progetto "Malati di Niente"

Premessa "Ricordo di aver pensato che gli schizofrenici sono i poeti strangolati della nostra epoca. Forse per noi, che dovremmo essere i loro risanatori, è giunto il momento di togliere le mani dalle loro gole."

Con questa frase di David Cooper (medico psichiatra inglese, esponente di spicco del movimento antipsichiatrico non solo in Inghilterra) abbiamo a che fare ogni giorno, quando iniziamo il nostro lavoro di terapeuti e di operatori psichiatrici, queste righe sono all’entrata della nostra comunità, quotidianamente ci dobbiamo fare i conti. Ma la nostra riflessione parte da lontano e il modo di intervenire oggi e la storia e i perché del progetto “Malati di Niente”, forse hanno a che fare con la storia del movimento antipsichiatrico e anti istituzionale in Italia, a cominciare dalla Riforma psichiatrica e dalla cosiddetta “rivoluzione basagliana”. Il 13 marzo del 1978, nasceva in Italia la L. 180 che di fatto concludeva, con un atto legislativo, l’esperienza della custodia manicomiale, imponendo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici (OP). Negli anni ’50 in Italia i manicomi ospitavano più di 100 mila persone e parte di queste privi di disturbi psichiatrici, quindi il manicomio fungeva da struttura per il controllo sociale, dove alcolisti, handicappati, barboni, emarginati, venivano “separati”, in un “luogo altro”, dalla società civile, perdendo immediatamente libertà, dignità e diritti civili elementari. Il criterio per l’internamento non era quindi la malattia mentale, ma la “pericolosità sociale” o il “pubblico scandalo”, quindi evidente la funzione del manicomio solo in minima parte riguardava l’assistenza e la “cura”. Il ricovero significava l’iscrizione al casellario giudiziario e la schedatura. Ma proprio a partire dagli anni ‘ 50, in gran parte dell’occidente, le attività di assistenza psichiatrica vennero attraversate e contrastate da un sempre più forte movimento antiistituzionale. In Italia il movimento nasce soprattutto a Gorizia, Trieste, Perugia, Arezzo, Reggio Emilia…e questo grazie al grande apporto di Franco Basaglia. La nuova cultura antimanicomiale introduce concetto e categorie quali decentramento, territorio, comunità, lavoro di equipe... Si fa quindi strada l’idea della prevenzione nella comunità e nell’ambiente di vita delle persone con disagio psichico. Basaglia inizia il suo intervento deistituzionale negli anni ’60 a Gorizia, ma è dal ’71 a Trieste che si radicalizza e si concretizza l’offensiva ai manicomi e alla vecchia psichiatria come istituzione totale, anche perché si iniziava a collegare con una grande domanda di cambiamento e trasformazione sociale che in questi anni pervadeva l’Italia. Possiamo affermare con certezza che la L. 180 è stata più di una legge, ha rappresentato un progetto politico in quanto i suoi presupposti tendevano a sviluppare una coscienza critica e una trasformazione dell’organizzazione sociale attraverso la partecipazione della collettività a tutte le forme di emarginazione e disagio. Il ricordo torna spontaneo ad alcuni momenti significativi: la gioia della libertà nel manicomio che abbatteva il muro e si apriva alla città, gli internati che con stupore potevano finalmente esprimere affetti, idee, potevano accedere a lavori retribuiti, potevano costruire cooperative e avere una casa propria. Per questo diciamo che la libertà é terapeutica. Non solo la libertà di essere matto, bizzarro, diverso, ma soprattutto la libertà dalla violenza delle istituzioni totali, liberta dalla stupidità e rigidità della burocrazia. Libertà di “rischiare di vivere” accompagnata dalla responsabilità di prendersi cura dell’altro, di essere solidali. Prevaricare, segregare, violentare, imbavagliare, mortificare le persone, “strano modo di curare un uomo, cominciando con l’assassinarlo...” scrisse Antonin Artaud sottoposto in 3 anni a ben 51 elettroshock, devastanti per la sua mente ed il suo corpo. Proprio la L. 180 nei suoi articoli più esemplificativi metteva al centro del nuovo intervento psichiatrico la costituzione di una serie di servizi territoriali che si articolavano all’interno del Dipartimento di salute Mentale (DSM). Ogni DSM quindi prevedeva e prevede (Progetto Obiettivo) sul territorio una serie diversificata di strutture: Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC - un reparto all’interno degli Ospedali Civili cittadini); Centro di Salute Mentale (CSM – con funzione ambulatoriale e di programmazione dell’assistenza territoriale); Servizi Riabilitativi Residenziali e semi-residenziali (SRR e Centri Diurni dove sviluppare e agire programmi di reinserimento sociale); Comunità Terapeutiche; Comunità Protette; Gruppi Appartamento (con diversi gradi di autogestione). Servizi e articolazioni di strutture importantissimi per recepire e cercare di dare risposte adeguate alle innumerevoli richieste di aiuto e supporto di chi soffre nella sua solitudine e nella sua angoscia. Ma un accenno particolare meritano le Comunità. Il termine stesso evoca significati e orizzonti che eludono alla “vita in comune”, alla “solidarietà identitaria”, alla appartenenza. Le Comunità sono strutture residenziali dove tutte le attività si sviluppano in un luogo nel quale sia possibile avvicinarsi reciprocamente in un rapporto che diventa terapeutico in quanto immediato e spontaneo. Un luogo quindi che crea legame. Le Comunità quindi come luogo non separato, ma invece luogo della condivisione e della trasformazione, che crea permanentemente legame affettivo e sociale. Intervento comunitario in psichiatria significa quindi, principalmente, che la “malattia mentale” non resti un tabù da delegare agli specialisti e da relegare in luoghi "altri". L’intervento comunitario, dovrebbe essere sempre in rapporto, in “relazione sistemica”, con le dinamiche sociali del territorio, non è un luogo altro separato, ma si pone il problema di creare una realtà condivisa e una reale rete sociale. Lavoro di rete che demedicalizza la malattia mentale perché si attua grazie alla pratica e alla attivazione di strutture e servizi non sempre propriamente sanitari. Istituzioni sanitarie, Enti locali, associazioni culturali e del volontariato, cooperative sociali, possono rappresentare alcuni nodi della rete; ma è la “realtà condivisa” e il legame di soggetti individuali e collettivi che realizza il lavoro di rete sociale. Il concetto di “realtà condivisa”, è fondamentale se lavoriamo quotidianamente con persone che si pongono troppo spesso al di fuori del mondo reale, imprigionati nell’alterità del loro mondo fantastico, privati del potere decisionale e incapaci di comunicare l’urgenza dei propri bisogni. La realtà è reale e vera solo nell’istante della condivisione, solo nel momento che si crea la relazione (paritaria e democratica) tra due o più persone. Se non stabiliamo questo, lo psicotico avrà sempre torto, irresponsabile nel suo delirio e privo di potere, mentre il terapeuta, avrà sempre ragione a priori, in quanto sano e il solo detentore (per autorità) della verità. Quante volte ci sentiamo impotenti di fronte al delirio e all’angoscia e ci chiediamo come poter comunicare “riportando per terra” la persona che abbiamo di fronte”? Quante volte siamo di fronte ad una persona e vogliamo vedere in lei, narcisisticamente, solo noi stessi e non riusciamo ad “incontrarlo”, a riconoscere ed accettare la sua alterità da noi perché impauriti e troppo inclini a normalizzare la differenza invece che farla esprimere. Ma tutto ciò è paradossale, in quanto è solo riconoscendo l’alterità dello psicotico che individuiamo noi stessi e non avremo più il terrore di confonderci con lui in un rapporto a tratti ambivalente e simbiotico. “Se non ora... quando?” Possiamo tranquillamente sostenere che in Italia, gran parte degli interventi psichiatrici si sviluppano all’interno delle cosiddette strutture intermedie. Dopo più di venticinque anni dall’attuazione della Legge 180, che poneva fine alla pratica e all’utilizzo dei manicomi, si sono sviluppate sempre di più strutture, dove il “folle”, viene inserito per iniziare percorsi di risocializzazione e programmi riabilitativi psico-sociali. In realtà tutto questo, si traduce troppo spesso in delega pressochè totale dei familiari e della società alle strutture istituzionali. Il rischio di creare nuovamente piccoli e moderni manicomi è evidente e non basta avere piscine, campi da tennis, saune…per non essere una istituzione chiusa e totale. Non è sufficiente fare psicoterapia, attività riabilitative e laboratori occupazionali, per costruire identità fortemente alternative e antagoniste al manicomio. Ogni istituzione totale toglie dignità, reprime, estorce diritti, nega democrazia, contribuisce alla formazione di sintomi, produce malattia. Nel manicomio (istituzione totale per eccellenza insieme al carcere) non esiste né passato né futuro, esiste solo il presente, sempre lo stesso, giorno dopo giorno, immobile presente senza tempo, dove non c’è “vita” e cambiamento, bensì “morte” e staticità. Il manicomio, insomma, non si pone il problema della trasformazione. - Comunità come spazio progettuale La Comunità è uno spazio progettuale piuttosto che un luogo di cura: in essa l’assistito, prima di essere paziente, deve essere rispettato come persona. Egli pertanto partecipa alla vita della Comunità non per una causa, la malattia, che per altro ha difficoltà a riconoscere, ma per realizzare un proprio scopo, solo così egli non si sentirà abbandonato e segregato, e non perderà il senso del suo stare in Comunità. Ogni processo terapeutico-riabilitativo necessità sempre della collaborazione del paziente, anzi, egli è il soggetto del suo percorso terapeutico; ma poiché tende a negare il suo disagio e non è sempre facile mantenere la sua motivazione, si tende a prevaricare la sua volontà e a trascurare questo fondamentale concetto terapeutico. Uno strumento di applicazione di tale concetto è il contratto terapeutico, cioè l’accordo esplicito con il quale l’ospite formulala sua domanda: gli obbiettivi che intende perseguire in Comunità, il tempo massimo di permanenza, le scadenze e le verifiche periodiche. Analogamente anche la famiglia dovrebbe aderire ad un contratto che la impegni al percorso terapeutico. - Comunità come setting La Comunità intera può essere vista come un unico setting, nel quale viene praticato un intervento multifattoriale ( farmacologico, assistenziale, riabilitativo, di sostegno psicologico, psicoterapico) prevedendo una serie di attività, a livello individuale e gruppale, strutturate a loro volta come sottosetting. Gran parte della vita della Comunità dovrebbe essere strutturata in sottosetting con precisi confini spazio-temporali-metodologici (luoghi, orari, regole, ruoli, programmi e metodi di lavoro), ciò per tre importanti ragioni: 1) contenere l’ansia, l’angoscia e l’aggressività dei pazienti (e degli operatori) 2) osservare i complessi fenomeni psichici e relazionali che si verificano all’interno della Comunità 3) costruire una “realtà condivisa”. Ma poichè la costruzione e conservazione di setting si basa sulla adesione e sul rispetto delle regole, è necessario prevedere alcuni momenti di confronto con i pazienti e altri solo con gli operatori) per discutere, condividere, ribadire, ridefinire, eventualmente modificare, regole, programmi, organizzazione e metodi di lavoro. - Comunità come laboratorio della trasformazione Il nostro orizzonte ideale, che determina l’intervento riabilitativo quotidiano, si colloca in piena continuità con quello storico movimento che negli anni ‘60/’70 ha criticato, combattuto e vinto le logiche custodialistiche e le istituzioni manicomiali. La Legge 180, è stato lo strumento legislativo che ha permesso, nel lontano 1978, il progressivo smantellamento degli ospedali psichiatrici e l’inizio di una nuova epoca per la sofferenza psichica. Si stava abbattendo una delle più vergognose e violente opere del genere umano: i manicomi, che andavano chiusi, e in alternativa aperti luoghi di “cura” e di socialità, dove l’intervento terapeutico si coniugava, e si coniuga, con la battaglia per i diritti di cittadinanza, contro lo stigma sociale e il pregiudizio. Dentro questa cornice si esprime il nostro lavoro. Ore, settimane, mesi, vissuti insieme ai nostri utenti, sempre più convinti che l’utilizzo e l’affinamento delle più moderne tecniche riabilitative non sarebbero mai sufficienti a restituire “abilità sociali”, voglia di vivere, autonomia, dignità a uomini e donne che hanno trascorso troppo tempo “prigionieri” all’interno del loro mondo, isolati dagli altri mondi possibili. In questi anni abbiamo capito che essere dei “bravi tecnici specialisti” non può bastare. E' necessario “esserci”. Perché “...l’affetto è prassi di essere presente, cioè pratica costante dello stare insieme” come ci ricorda lo psichiatra romano Massimo Marà nel suo libro “Comunità per psicotici”. All’interno del nostro programma di attività settimanale abbiamo in effetti diversi gruppi di lavoro, dal giardinaggio al cinema, dalla ginnastica al disegno, dal canto alla pittura. L’importante però, è fare le cose insieme e trovare dei momenti per discutere e ascoltare, anche con i pazienti più gravi e regrediti. Indubbiamente l’elemento che può garantire il raggiungimento degli obiettivi è il rapporto con il sociale, con la città: l’intervento socio-riabilitativo dentro la nostra realtà territoriale. Purtroppo nulla di tutto questo è scontato, anzi molta strada abbiamo ancora di fronte a noi per una oggettiva integrazione e per un reale rispetto della diversità. La lotta allo stigma e al pregiudizio, la battaglia per i diritti, l’integrazione, si raggiungono con la visibilità, con la rivendicazione della propria diversità, della propria storia, della propria intima sofferenza. Detto questo, dovremmo “vivere” e utilizzare la comunità come luogo dove si sperimenta la trasformazione, ma anche come luogo e strumento della trasformazione. In entrambi i casi per trasformazione dobbiamo sempre intendere modificazione delle relazioni interpersonali, della comunicazione patologica, metamorfosi dei propri stati interiori intrapsichici; ma anche trasformazione come processo di liberazione, come superamento e stravolgimento dei rapporti sociali alienati i quali producono inevitabilmente malattia e sofferenza. Trasformazione quindi come riappropiazione del potere decisionale da parte di chi, mistificato e sottomesso, per una intera vita ha dovuto chiedere sempre il permesso a qualcuno, anche per comprare un semplice pacchetto di sigarette. Laing nel suo celebre libro “L’Io e gli altri”, ci dice che: “Ogni famiglia ha le sue controversie e ogni famiglia ha qualche mezzo per manovrarle. Uno dei modi di fronteggiare queste divergenze verrà illustrato sotto il nome di mistificazione. Mistificare significa confondere, annebbiare, oscurare, mascherare ciò che succede. Genera confusione nel senso che non si percepisce ciò che veramente si sente, o ciò che si fa, o ciò che sta avvenendo...” Bene, noi operatori psichiatrici, dobbiamo sempre evitare di praticare e agire la mistificazione con i nostri assistiti, in quanto ogni processo di trasformazione esprime conflitto, dinamicità e “crisi evolutive”; mentre la funzione principale della mistificazione è quella di eludere un vero conflitto, per il mantenimento dello stato di cose presenti. Per concludere con le parole di Basaglia: “...questa è la vera psichiatria, perché non è psichiatria.” Dal 1978 ad oggi sono trascorsi molti anni e tanto è cambiato nella nostra società, nell’economia, nel lavoro, nella cultura. La Legge Basaglia che poneva fine all’orrenda esperienza della custodia manicomiale, ha dato un forte impulso alla Riforma psichiatrica nel suo complesso; ma enormi problemi sono rimasti irrisolti. Quello più grande è sicuramente l’incapacità di accogliere il diverso, il “folle” in particolare, e di reinserirlo nel tessuto sociale. Anche per questo la battaglia contro lo stigma e il pregiudizio verso la persona sofferente è, e rimarrà l’obiettivo primario per quanti credono che ogni essere umano ha il diritto di migliorare la propria qualità di vita e che il disturbo mentale è un “male oscuro”, dove i termini relazionali e socio-culturali rivestono una importanza cruciale, a volte drammatica. “Diamo un’opportunità alla parola”, abbiamo detto e scritto, proprio per i “senza-voce” e gli “invisibili” della nostra epoca, strozzati dalle forti mani del pregiudizio e dello stigma sociale. Diamo un’opportunità alla parola per esprimere onestamente e senza mistificazione che: 1) il pregiudizio verso il diverso, il “matto”, è molto forte e va combattuto; 2) è sempre più urgente costruire una rete sociale solidale, perché il nostro intervento come operatori psichiatrici è troppo debole se non supportato da una comunità, da un territorio, in grado di accogliere senza emarginare; 3) i diritti, la libertà e la dignità, sono terapeutici. Noi, operatori psichiatrici, che lavoriamo quotidianamente nel settore della riabilitazione e dell’inserimento sociale dei pazienti, denunciamo troppo spesso una intolleranza e una diffidenza verso il diverso, verso l’escluso, ed è per questo che istituzioni, associazioni, strutture operative del settore, cooperatori, dovrebbero farsi carico di una vera e propria promozione culturale della salute mentale nei territori; dove riversare idee ed esperienze, mettendole a confronto con i desideri e le angosce di chi soffre, ma anche con le paure, l’intolleranza, lo smarrimento di una collettività sempre più in difficoltà ad accogliere senza remore, a riconoscersi senza escludere. In effetti i presupposti della Riforma psichiatrica tendenti a sviluppare una coscienza critica e una trasformazione dell’organizzazione sociale, attraverso la partecipazione della collettività a tutte le forme di emarginazione, sono rimasti troppo spesso sulla carta, non realizzati. Ma con tutti i limiti che troviamo a questa legge, certo non possiamo e dobbiamo tornare indietro, perché nulla è più come prima, perché abbiamo appena iniziato a restituire a quelle persone ridotte a “matti da legare”, lo statuto di cittadini, il diritto di esistere dentro quel contratto sociale da cui erano stati definitivamente espulsi in modo del tutto improprio. Il progetto “Malati di Niente” si inserisce a pieno in questo difficile e complesso contesto, ed ha l’ambizione di aprire un percorso, nel quale cammineranno insieme pazienti, familiari, operatori, gente comune, verso un orizzonte ideale rappresentato da una comunità di donne e di uomini ancora capaci di creare legame sociale, inclusione, solidarietà. Gli obiettivi sulla nostra rotta • Promozione di una riflessione e di una battaglia contro lo stigma sociale, il pregiudizio e il tentativo di revisionare la Legge 180 attraverso la riproposizione di una logica di segregazione manicomiale, per la piena riappropriazione dei diritti di cittadinanza e di reale democrazia. • Prevenzione e promozione della salute mentale attraverso la valorizzazione delle diversità, contaminazione culturale e intervento sociale sul territorio, attraverso il lavoro di relazione e comunicazione con le scuole e il “mondo giovanile”. • Costruire e attivare un lavoro di rete con l’associazionismo sociale e culturale, le istituzioni, le strutture del Dipartimento di Salute Mentale, il volontariato, il mondo della cooperazione sociale...

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